Fra le mani mi rigiro una foto dei miei vent’anni, sudata come l’asso nella manica di un giocatore. 1974. Il tempo, col sole, filtra e sguazza anche lì dentro, sguazza su di me, scorpione intrappolato in quella goccia d’ambra. I blue jeans finalmente stinti, felpa Adidas color aragosta, e baffoni da vecchio al profumo di Mediterraneo. Ma poco più su, due grandi occhi castani brillano al sole e giocano fra di loro e brindano alla vita come due traboccanti sanguigni bicchieri di vino. Oltre gli occhi, il segreto della polvere pirica che striscia e scoppietta per le viuzze della mia mente, fino a esplodere in una festa di maggio; come me la passo fra una ragazzata e l’altra, ma soprattutto fra una fatica e l’altra; quanti sogni aspetto schiudersi al caldo e di quanti me ne resta, intrappolata lì fra le ciglia, solo l’ombra.
Due spalle larghe e possenti, da sognatore controvento. Appena dietro le spalle, cinque lunghi anni di matematica, bilanci, e di sveglia alle cinque e mezza: il freddo della montagna affila le sue lame sulla mia pelle in quel veloce cammino sulla brina fino al treno diretto alla scuola. Lo sferraglio d’acciaio lungo i binari e il saliscendi di compagni persi in quei viaggi sonnambuli. Ma se socchiudo gli occhi e punto bene le orecchie come un cane, posso ancora sentire pulsare sul fondo del cuore la musica di quel che lascio ogni giorno salendo su quel treno sbagliato. Cammino lento verso la scuola, seguendo la processione delle novantanove cannelle che spruzzano acqua e sgranano la mia adolescenza come un rosario. Intanto il sole scalda l’aria.
Stefano, il nome di mio padre. Sono nato in un piccolo paese sui monti aquilani, Acciano. Tutta pietra, asini, odore di pecore, vino e pane caldo. La scia di una stella accoccolata ai piedi del monte Sirente, nella vallata imbevuta di sole. Il sacro padre di roccia si staglia verso il cielo, un profilo frastagliato di labbra morse dal freddo; sfila le sue vette laconiche, sovrasta la vallata, la sorveglia come la sua grande culla. Da lì sopra infonde nello sguardo e nelle viscere dei suoi figli una linfa rude e forte. Nelle notti solitarie maledirai quella barriera di ghiaccio che ti separa dal mondo, e il freddo che arranca e ti solletica i piedi; il campanile frusta sulla pelle un tempo lento, fermo. E amerai il sole che non si stanca mai; il cielo terso, esatto – è un campo di genziane di notte, quando il buio pesto inghiotte la montagna e il cielo si accende, diventa terra azzurra, lunare, e si fa più chiaro quando tocca la pietra. Amerai, e misurerai i tuoi passi sulla paura delle serpi e dei lupi. Le viti intrecciate ti nasconderanno il cielo. Conoscerai le querce, i faggi, le betulle dalle cortecce prima che dalle foglie; i vicoli invece dall’odore di mosto, e di legna bruciata ad ottobre. Ma meglio conoscerai i sentieri battuti attraverso i boschi su per le montagne: al tuo passo incerto la terra pulserà col tuo cuore; gonfierai i polmoni, e sentirai la terra salire e vibrare per tutto il corpo insieme al tuo respiro. Le tracce più nascoste si apriranno come pepite sotto gli occhi di cercatori d’oro: con le narici in fremito e le orecchie affilate di un segugio, tu insegui quei sentieri! – scivolano ai tuoi piedi come veli di spose in fuga. Geloso del segreto, sarai spirito fedele del bosco e di quei compagni sconosciuti che prima di te l’hanno attraversato.
Assettato aspetterai le bacche di sambuco e di ginepro, le ciliegie, e il mallo di noce nei solstizi d’estate. Il vento secco, quello buono. Con le guance dure, rosse di neve e vino, senza paura potrai urlare contro al tuo padre di roccia tutti i tuoi desideri, le attese; vomitare giù dalle sue vette tutte le delusioni, tutto il dolore, tutta la rabbia. Vomitare i sogni senza sosta. In un giorno fortunato li vedrai scintillare come perle di sudore sul dorso delle sue aquile, alla prima luce del mattino; quei rapaci… – li invidierai, ma con gli occhi ubriachi di meraviglia piangerai per loro.
Il sacro immortale padre di roccia riecheggia ora i miei primi vagiti. La tenera fragilità del padre uomo li immerge già nel dolore. E strillano le aquile, e strilla la vita.
A pochi anni la mia prima esaltante scoperta: gli smaltini da ritocco dell’emporio di mio nonno. Quei colori densi, pulsanti, ridenti, sono una festa che spazza via i giochi di fango e sassi. L’ispido pelo di lupo che tinge del suo stesso colore le rocce e i tronchi e i volti umani, quei ciuffi verdi infiacchiti dalla brina, l’azzurro gelido del cielo che gocciola fin nel midollo, per magia ora si svegliano di colpo. E si accende il rosso, più intenso del sangue delle mie ginocchia sbucciate; il blu, più forte degli aghi che germogliano dal fuoco in un agguato alle mie mani gelate di neve; il giallo, caldo e magnifico come lo stupore che scalcia ora dentro ai miei occhi. Quegli astratti burattini palpitanti fremono nelle mie mani: posso giocarci, spalmarli, lanciarli, colarli, strozzarli, e crearci la vita a piacere. E suonano persino, spezzano i silenzi come rami secchi, scalpitano furiosi al galoppo in beffa ai lievi fruscii della natura, strappano a morsi il tempo e, a colpi di pennelli come spade, lo spogliano della sua immobilità. Suonano più dolci dei canti e delle bestemmie di quei vecchi lupi d’Abruzzo.
Subito ne balza fuori un Topolino gigante, che sorride sul paracamino. Avevo dato vita al topo di quei fumetti che leggevo instancabile in cucina in mezzo al borbottio del sugo di carne. Il mio Topolino, smagliante fra pinza e paletta, mi racconta di incredibili avventure, mi prende nel suo caldo guantone e, a bordo della scopetta incenerita, mi porta lontano, lontano dalle rocce di un solo colore, lontano dalla perla nera che scintilla negli occhi di mia madre alla nostalgia del suo uomo, lontano dalle urla dei maiali giù per le strade a dicembre, dagli sciami di fazzoletti scuri fuori la chiesa, dai vecchi in piazza che, coppola sulla testa, si ancorano alla vita col tresette, la briscola e il dopobarba alla menta.
Alla scuola media, il primo riconoscimento pubblico, poi un secondo. Un vento caldo, di terra arsa, il vento solitario delle tre nei pomeriggi d’estate, quando le donne e i vecchi, incupiti, sono rintanati nelle case, le cucine già rassettate, e solo la ginestra fruscia di tanto in tanto, solo il vento è il padrone della terra: mi avvinghia alle caviglie e, giocando alla carriola, mi spinge fuori da quella traballante tavolozza che è il mio spirito in fremito. Il mio disegno di uno zoo viene lodato a gran voce dal professore e ricevuto di aula in aula per tutto l’istituto. I ragazzi sgranano gli occhi cisposi alla vista di quello strano posto, dove non ci sono pecore e asini a brucare pigramente l’erba e a scalciare, ma mostri enormi e a strisce con grosse zanne chiusi in gabbie di ferro. Lo avevo visto in uno dei numeri di Selezione, la rivista americana di attualità a cui mio nonno era abbonato. Con un balzo le mie mirabili creature finiscono subito a popolare le più oscure fantasticherie.
Poi è stata la volta della fontana medievale che padroneggia nella piazza vicino la scuola, a Fontecchio. Grandi maschere con gli occhi strabici e due baffi lunghi fin sotto il mento: fumano serafiche un grosso sigaro come quelli che si rigirano fra i denti certi signori, o forse la canna di un fucile da caccia; da lì sputano acqua nella vasca. Sopra la testa una danza di scudi, aquile furibonde e fiori sorregge un grande cappello a punta; volteggiano ridenti finestrelle. Le giuste proporzioni e la preziosità dei dettagli acclamano un nuovo successo: il mio disegno della fontana medievale guizza di mano in mano per tutta la scuola. Il focolaio di un nuovo sentimento si accende e, spalle aperte, mi fa un po’ più uomo al cospetto del sacro monte Sirente.
Guardo Nino che vola sul campanile e i tetti storti. Lui che si nutre di pane e di lumache, e ha le ossa leggere. Dipinge con le mani, le pietre, la terra, pennelli secchi, la barba talvolta, che brilla di grano solina alla luna. Vola coi suoi colori e l’allegria, gli occhi gialli pieni di genziana. Vola sulla vita, e con le mani ruvide la impasta dei colori che più ama. Nino fluttua alto sulle nostre teste, dolce e immenso, fluttua con la nostalgia di un dubott in una festa in piazza, che da Parigi l’ha riportato stracciato e felice al paese di pietre.
Ma per mia madre, che sola gestisce un negozio di alimentari, e mio nonno, ancora dritto sul suo bastone, Nino è un’ombra avvinazzata che si trascina verso di me. L’untore barcolla, ride sotto il suo lungo becco a uncino e il cappello di feltro nero a falda larga. Una sferzante pioggia di imprecazioni mi cade addosso: se non voglio finire in miseria devo abbandonare ogni velleità d’arte e studiare come si fa di conto per trovarmi un lavoro serio. Nella pancia scalciano i sogni.
Le spalle si allargano, sono ora quelle di un giovane uomo cresciuto in fretta, troppo in fretta, fra studio cieco e pesanti lavori per il negozio e per racimolare qualcosa di tanto in tanto, per fingere di essere un figlio con le braccia grandi di padre. Eppure in quella gabbia di zoo appena sotto le spalle pulsa un animale, guaisce, scalcia, pulsa di passione, rabbia, pulsa dell’ardore che dalla rabbia viene. Continuo a disegnare e a dipingere negli schizzi di tempo. Il monte Sirente è immobile, silenzioso al di sopra di quel mare agitato di cicale; ma mi tortura col suo senso della vita, della morte, schiacciato lì sotto un crepuscolo viola; ma se allargo le braccia in croce ai suoi piedi, allora mi estendo tutt’intorno, mi frantumo in uno sciame di api ebbre ad agosto, posso abbracciarlo tutto intero, cadere e perdermi dentro il mantello di quell’aquila enorme, io tutto sono la valle, e il cielo liquido che mi bagna i piedi, e fa venir sete. Nello stomaco le vertigini di quell’infinito. La bellezza impietosa trafigge gli occhi.
Qualche cinghiale grufola nella terra alle mie spalle. Non c’è bisogno di aver paura. È quasi sabato. Mia nonna avvolge le lunghe trecce in un mazzolino di rose sulla nuca, e canta di campagnole innamorate; le guance ancora fiorite dei pupi, ma gli occhi dietro la nebbia non luccicano più. Canta, e con le mani tremule, conserte, piange la sua dolcezza. A mente conta i giorni fino a Santa Petronilla. Nel camino le patate cuociono lente sotto al coppo. Il rosmarino solletica l’aria. Io invece batto i piedi e faccio a pugni col tempo, muoio sotto l’attesa e il desiderio. Quella luna flaccida. Ho gettato al fuoco la mia chitarra per salvarmi la pelle. È quasi sabato: aspetto la hit di musica alla radio e il nuovo disco dei Rolling Stones. Intanto nel bar sorseggio batida de coco, e gioco un po’ con le donne brasiliane su quel fondo di latte, e penso che i loro uomini mai conosceranno il sapore di terra aspra che rantola giù nella gola da un bicchierino di genziana.
Al volo risalgo sul treno: gli anni dell’università stavolta mi portano a Roma. L’arte incendia le chiese, batte nelle strade, un brulichio di strade mostruose in cui mi aggiro ammaliato e perduto. Esplode nelle particelle dell’aria. Fremo sotto a quel fiammifero che si accende sulla mia pelle. A Roma incontro Schifano e Arman: una rabbia tempestosa di colori scende giù sfilacciata come sangue; montagne di violini, di scarpe, chiavi, cucchiai mi cadono addosso. Sono mani ruvide che mi schiaffeggiano, mi raschiano i visceri, e mi insegnano un po’ di me stesso; e che c’è un altro modo di parlare, un altro modo di pensare, di guardare, un altro modo per urlare. La rivoluzione che mi pulsa nelle vene.
Quando torno al paese, qualche sera li rincontro, che brillano e mi sorridono dal grande carro che sfreccia nelle notti limpide e ferme sul Sirente. Dalla finestra vicino il mio letto li saluto con gli occhi annacquati di malinconia, sventolando i miei dipinti astratti; vorrei saltare su con loro, liberarmi della mia gabbia con un balzo feroce, mordere la vita e volare sulle aquile che sfiorano le vette rocciose, brandendo i pennelli e i colori come le mie spade.
Invece, saluto per sempre i miei monti, che in quella valle di sole mi volteggiano tutt’intorno come sentinelle, e mi guardano allontanarmi, il figlio maledetto e inquieto che si avventura lontano da casa verso l’ignoto regno marino. Umida, salmastra, festosa in mezzo al brulichio di cani al guinzaglio, approdi e partenze, negozi che si montano e smontano come in un campeggio, Pescara mi accoglie, buon porto di mare, e il lavoro mi realizza finalmente come professionista. Qualche nostalgico paesaggio imbevuto di sole ogni tanto, l’erba alta dorata di spighe al vento, un castello diroccato. Una striscia di mare taglia l’orizzonte come una lama rovente. Niente più tracce di Schifano, niente più Arman. Le mie mani si ribellano a me stesso, in un ammutinamento insidioso in combutta col cuore.
E poi il dolore. Quello più forte, quello muto, quello più duro e freddo di tutte le pietre che ho conosciuto. Ora le aquile sui monti non strillano neanche più. Il sacro immortale padre di roccia è inghiottito sotto un pesante sudario di nebbia, solo un vecchio decrepito malato di artrite. Ora l’animale nella gabbia non si muove neanche più, neanche più tenta di puntare il muso scarno contro le sbarre. Le palpebre cadono giù atterrite verso il precipizio dello sguardo, ora che lo sguardo e la linfa e il cuore sono roccia.
Il tempo. Il tempo si riveste di colpo della sua immobilità. Adesso la scopro calda, e buona. Adesso che non sono più un bimbo che scalcia impaziente seduto sulle scalette di pietra fuori casa, crucciato davanti ai monti, avido di vita. Adesso che soffoco sotto il dolore più nero e l’impietosa frenesia. Eppure l’orologio batte, batte più veloce di prima, batte più veloce del cuore dell’uomo e dell’aquila; mi agguanta alla gola, mi tira per i capelli, mi trascina violento, ma io non mi muovo. Fermatelo! Fermatevi!! Afferro i colori, guardo fisso il tempo davanti a me, ipnotico, vorticoso come un mulino a vento che divora la vita; brandisco la mia arma rovente, io tutto sono una pietra focaia, miro al cuore del tempo chiuso in gabbia e sparo. L’orologio si ferma, e io comincio a muovermi. L’orologio si frantuma in mille pezzi, e il tempo comincia a muoversi. L’animale è balzato feroce fuori dal cuore. Il Sirente sfreccia con le sue guglie argentate verso il cielo. E io, colori alle mani, io adesso sono l’aquila che strilla.
scritto da Caterina Di Loreto
caterinadiloreto@gmail.com
Storytelling pubblicato da: Atlante dell’Arte Contemporanea – edito De Agostini – 2020, pagg. 704, 705, 706, 707